Quei ragazzi di mare avvelenati dall’ asbesto sulle navi militari

Articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera

Sono 600 i morti stimati tra gli imbarcati. «Spaccavamo i tubi di asbesto con il martello». Per la bonifica stanziati solo 1,5 milioni l’anno

Un milione e mezzo di euro l’anno. Quanto gli stipendi lordi annuali di un pugno di ammiragli. Ecco quanto ha speso ufficialmente la Marina, da quando l’amianto è vietato, per rimuovere dalle navi militari le enormi quantità di asbesto. Causa, per il procuratore padre dell’inchiesta, di almeno 600 morti di tumore. È una gara contro il tempo, ormai: riusciranno i marinai ammalati ad aver giustizia prima che l’abbia vinta «la grande consolatrice»? «Bini Mario, contumace. Chianura Francesco, contumace. Cucciniello Guido, contumace…». Basta la lettura dei resoconti delle udienze del tribunale militare di Padova per capire il peso dato all’inchiesta dagli alti ufficiali. Poco. Pochissimo. Mai venuti in aula. Ci pensino gli avvocati…

Il libro

Accusa l’ultimo report del Registro nazionale dei mesoteliomi che «l’Italia è attualmente uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto correlate. Tale condizione è la conseguenza di utilizzi che sono quantificabili a partire dal dato di 3.748.550 tonnellate di amianto grezzo prodotto nazionalmente nel periodo dal 1945 al 1992 e 1.900.885 tonnellate di amianto grezzo importato nella stessa finestra temporale». Totale: oltre cinque milioni e mezzo di tonnellate. Prodotte, importate e piazzate anche sulle navi militari, come raccontano nel libro Navi di amianto Lino Lava e Giuseppe Pietrobelli, un po’ ovunque: «Avvolge i tubi. Protegge dal calore. È nelle guarnizioni, dentro i macchinari, nelle porte tagliafuoco. Perfino nei forni delle cucine». Per decenni. «Ho lavorato in ambienti con temperature di 50 gradi», ha deposto il maresciallo Armando Carnelevare, «per lavorare sui tubi dovevamo spaccare l’amianto col martello e lo scalpello, senza mascherine. Finito il lavoro ricoprivamo il tubo con l’amianto che avevamo a bordo». Tutto a mano, spiegano gli autori: «I guanti non servono, e nemmeno la mascherina, perché quella sostanza non brucia i polpastrelli, non irrita gli occhi, non emana odori repellenti. Con le mani la si impasta fino a formare una specie di malta da applicare a una calderina di riscaldamento o ad un tubo». E i residui? «Quelli che si depositavano venivano usualmente raccolti con scopa e paletta», risponde il capitano di corvetta Marco Aglietti, una specie di 007 dell’amianto, «e gettate nelle comuni immondizie». Il tutto decenni «dopo» lo studio del 1906 dello scienziato inglese H.M. Murray che collegava il cancro al respiro dei «corpuscoli dell’asbesto»…

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